Con il “Decreto Rilancio”, ora diventato legge, è stata istituita dal 2021 una nuova scuola di specializzazione che prepara i medici specificamente in cure palliative. Come dichiarato da Italo Penco, presidente della Società Italiana di Cure Palliative, in un articolo pubblicato sul quotidiano Sanità Informazione del 23 Luglio 2020: “Si tratta di un obiettivo raggiunto e di un salto culturale per l’Italia che mancava di una struttura specifica e che costringeva i medici interessati a fare il mestiere di palliativista a improvvisarsi durante un altro percorso”.
Concordiamo con Penco nel ritenere che la creazione di un percorso professionale dedicato alle cure palliative sia stata una scelta indispensabile per il nostro futuro a maggior ragione in una realtà in cui il 60% dei pazienti che necessitano di cure palliative sono ormai pazienti non oncologici e in cui l’allungamento dell’aspettativa di vita sta creando pazienti più fragili, affetti da numerose patologie e comorbilità con bisogni non solo clinici ma anche sociali e psicologici. Al di là della nuova legge, siamo tuttavia coscienti che il problema della carenza sul mercato del lavoro di medici palliativisti non avrà un’immediata soluzione perché passeranno almeno 4 anni perché vengano adeguatamente formate nuove risorse professionali. Ma finalmente abbiamo iniziato a muoverci.
Su questo ed altri problemi ci siamo voluti confrontare con uno dei numerosi giovani laureati in medicina che stanno completando, presso l’Hospice Il Tulipano, la loro specializzazione in materia oncologica con cicli di formazione professionale in cure palliative. Ci sembra infatti molto interessante riportare il punto di vista delle giovani leve, dei medici che diventeranno i nostri futuri curanti.
D. Dottor Patelli, buongiorno. Vista la sua giovane età (per lo meno rispetto alla nostra) ci permettiamo di darle del “tu”. Ci farebbe piacere se ti presentassi e ci raccontassi quale percorso stai facendo qui, nell’Unità di Cure Palliative dell’Hospice Il Tulipano dell’Ospedale Niguarda.
R. Mi chiamo Giorgio Patelli. Sono un Medico in Formazione Specialistica in Oncologia Medica. Dopo aver frequentato la Scuola di Medicina e Chirurgia a Bologna, mi sono iscritto a Milano alla Scuola di Specializzazione in Oncologia Medica, che dura cinque anni. Attualmente sono al terzo anno di corso e mi trovo impegnato in varie rotazioni tra gli ambiti di interesse, fra cui le cure palliative. Premetto che ciò che avviene nella scuola di oncologia non è valido per tutte le altre scuole di specializzazione; le conoscenze e le skills che sto apprendendo qui servono per sviluppare e acquisire capacità sul campo. È infatti prevista per noi futuri oncologi una rotazione di tre mesi: un primo mese in ambiente Hospice “inpatient” (quindi accoglienza
in Hospice), poi un mese di assistenza domiciliare sul territorio, quindi Hospice in senso lato fatto di attività di consulenza e ambulatorio di cure palliative per il Grande Ospedale Metropolitano Niguarda, al Polo universitario.
D. Per la formazione oncologica, questo percorso formativo è obbligatorio o è a tua scelta?
R. Per il mio Polo, quindi il Niguarda Cancer Center per l’Università degli Studi di Milano, diretto dal Professor Siena, è obbligatorio; so che anche presso l’Istituto Nazionale dei Tumori (che fa sempre capo all’Università Statale di Milano, ma è un altro Polo), tale rotazione è obbligatoria. Non sono sicuro che tutte le scuole di specializzazione in oncologia organizzino una vera rotazione in questo ambito, ma ritengo certamente che tale esperienza dovrebbe essere offerta a tutti i medici in formazione specialistica, indipendentemente dal genere di scuola di specializzazione. Difatti, non sarebbe attuale pensare che le cure palliative si riferiscano solo ai pazienti oncologici.
D. Che tipo di esperienza e che tipo di sensazioni ti ha lasciato l’essere qui presso un’Unità di Cure Palliative, sia come persona sia come professionista?
R. Credo che sia un momento molto importante nella mia esperienza, sia personale che professionale di medico. Nella mia routine, mi occupo da tre anni di imparare a curare e aiutare pazienti affetti da malattie oncologiche. Quello di cui ci occupiamo qui nell’Unità di Cure Palliative è una fase molto importante della vita di queste persone, affette principalmente da tumore (ma non solo). È la parte più delicata del percorso di cura, perché bisogna fare il punto su quello che è successo e su quello che succederà (perché le cure oncologiche non funzionano più? perché il mio corpo sta cambiando e non riesco a fare quello che facevo prima? dovrò lasciare le persone care? come affronterò le mie più grandi paure?).
Il nostro compito è fare in modo che il passaggio fra la vita e la morte sia il più dolce possibile ovvero avvenga nelle condizioni migliori possibili, in accordo con la “soggettività” e le preferenze del paziente. A questo non si è preparati dalla formazione accademica.
Questa esperienza è molto valida, importante e arricchente sia dal punto di vista personale che, soprattutto, professionale. Ti permette di osservare come colleghi esperti affrontano ogni giorno situazioni complicate, attraverso una grande sensibilità e una grande professionalità che è data non soltanto dall’esperienza, ma anche dalla reale applicazione di alcuni principi medici come il garantire l’autonomia delle persone malate nel poter scegliere (principi che, per quanto necessari, talora vengono dati per scontati). Quindi questo è il posto giusto per consolidare queste capacità.
D. In base alla tua esperienza consiglieresti a giovani studenti che stanno frequentando il corso di medicina, corsi di formazione in cure palliative e perché? Sarebbe opportuno secondo te che i giovani medici si specializzassero in cure palliative?
R. Ci sono due livelli di risposta.
1) Chiaramente, la scelta di frequentare le cure palliative deve in parte tenere conto delle predisposizioni individuali, perché essendo un ambito così delicato e complesso ci vuole una propensione non solo nella capacità, ma anche nella volontà di vivere ogni giorno delle esperienze di questo genere. Ciò nonostante, penso che sarebbe utile per tutti i medici una rotazione in unità di cure palliative; negli ultimi anni, le cure palliative non sono più da intendere solo come l’intervento medico legato alla terminalità stretta, ma come un percorso di cura volto a migliorare la qualità della vita dei pazienti con malattie progressive, per cui compatibile con il trattamento attivo della malattia sottostante, in qualsiasi ambito (oncologico, cardiologico, neurologico, ecc.).
Come medici specialisti ospedalieri, può risultare difficile gestire pazienti complessi con tanti disturbi diversi, che, ricordiamo, trascorrono la maggior parte del tempo lontano dall’ospedale (l’accesso ospedaliero è di norma limitato al momento in cui ricevono una terapia attiva). Penso ai pazienti cardiopatici oppure oncologici, che si recano agli appuntamenti ambulatoriali per un controllo o per ricevere la terapia, ma poi per il resto del tempo sono a casa. Il nostro sistema di medicina territoriale non ha ancora la potenzialità per intercettare adeguatamente le esigenze di tutte queste persone con fragilità. Per cui, penso che ci sia tanto bisogno di cure palliative e di formazione in cure palliative in Italia, per prendersi cura di questi pazienti.
2) Sinceramente non ho né l’esperienza né le competenze per affermare se sarebbe opportuno istituire una vera e propria scuola di specializzazione in cure palliative, oppure lasciare la formazione in questo ambito ai medici già specialisti come avviene tuttora.
D. In base a quello che è stata e che è tuttora la tua esperienza qui nel Reparto di Cure Palliative, è cambiato in te il concetto di dignità della vita oppure no?
R. Diciamo che attraverso il mio percorso di studi volto all’oncologia, dove l’esperienza del fine vita è presente seppur meno frequente e centrale rispetto alle cure palliative, ho sviluppato un forte concetto di “dignità” della vita, che non è cambiato radicalmente con questa rotazione. Al di là che questo mio pensiero è puramente soggettivo, come futuro oncologo cercherò sempre di valorizzare la vita ma anche confrontandomi con l’evenienza della morte, mantenendomi positivo ma realistico nelle mie comunicazioni, quindi attribuendo valore e dignità alla vita anche quando una malattia diventa non più guaribile e conduce alla morte.
D. La morte fa parte della vita. Quanto è importante che un medico nel suo agire tenga sempre presente che i suoi pazienti ”possano” morire?
R. Ho la presunzione di dire che, anche grazie a periodi di formazione come questo (in cure palliative), questo concetto sia sempre più radicato, presente e delineato nei miei colleghi coetanei. Ci sono delle malattie che ancora non sappiamo guarire, ma possiamo curare. In alcune fasi della malattia, la cura è rivolta sia alla persona malata che alla patologia (es. il tumore). Come medici, dobbiamo saper riconoscere quando è il momento di concentrarci prevalentemente sulla cura della persona, tralasciando anche eventualmente la cura della patologia se essa comporta un danno e un peggioramento della qualità di vita a fronte di un beneficio trascurabile sulla sopravvivenza. Dobbiamo ammettere a noi stessi che la scienza ha dei limiti, non è in grado di guarire tutti e sempre, per cui la morte correlata a malattie attualmente inguaribili non deve essere considerata come una sconfitta personale. Il fulcro di questa mia esperienza nell’Unità di Cure Palliative è che non bisogna tralasciare la cura dei sintomi e sottostimare la qualità della vita; questo obiettivo è da trasferirsi non solo nel campo dell’oncologia, ma in tutti gli ambiti della medicina. Ogni paziente, indipendentemente dalla malattia, è una persona.
Ringraziamo il Dottor Patelli per il tempo che ci ha dedicato augurando che questa sua esperienza nelle cure palliative sia significativa nel percorso della sua specializzazione professionale.